Che cos’hai nei pantaloni?

Per cominciare il lavoro ci è sembrato necessario mettere a fuoco il problema per cui l’insegnante e 12 ragazzi e ragazze del gruppo si sono riuniti per discutere di cosa siano per loro gli stereotipi in generale e quelli di genere in particolare. Si può partire da una semplice definizione da dizionario: la Treccani, alla voce stereotipo riporta (qui la voce completa)

Opinione precostituita su persone o gruppi, che prescinde dalla valutazione del singolo caso ed è frutto di un antecedente processo d’ipergeneralizzazione e ipersemplificazione, ovvero risultato di una falsa operazione deduttiva […] La maggior parte delle definizioni di stereotipo sottolineano gli aspetti di ipersemplificazione e impermeabilità all’esperienza.

Saltano subito agli occhi alcuni concetti: lo stereotipo è una generalizzazione scorretta, una forma di cattiva universalizzazione. Si assume, insomma, che, siccome a molte persone la cioccolata piace, questa debba piacere a tutti, indistintamente. Inoltre un elemento caratteristico degli stereotipi è che sono refrattari e resistenti alle prove contrarie che possono giungere dall’esperienza: per quanto io possa incontrare molte persone a cui, in effetti, la cioccolata non piace, continuerò a pensare che questa piaccia a tutti. Ovviamente “resistenti” non vuol dire “indistruttibili”, la storia ci insegna che gli stereotipi possono essere superati e smascherati per quello che sono, ma, di solito, occorre molto tempo e molto lavoro. Gli stereotipi riguardanti la popolazione ebraica, per esempio, sono stati largamente superati dalla storia e adesso rimangono monopolio soltanto di alcune frange di estremisti politici o di fan delle teorie del complotto. Anche molti pregiudizi riguardo alle donne sono stati superati o sono in via di superamento. Fino a un secolo fa, infatti, non era affatto scontato che le donne avessero la capacità di partecipare alla vita politica e di poter esercitare il diritto di voto, oggi ci sembra assurdo che si sia dovuto aspettare così tanto per concedere un diritto “ovvio”. Insomma gli stereotipi sono duri a morire ma non eterni e indistruttibili. Sono un fatto sociale e culturale non naturale, e, come tutti i fatti sociali e culturali, in qualche modo, seppure con fatica, modificabili, trasformabili.

C’è un aspetto degli stereotipi, però, a cui la definizione non fa cenno: molto spesso gli stereotipi non sono solo delle lenti attraverso cui noi guardiamo il mondo, ma attraverso cui noi guardiamo anche noi stessi, e questo è evidente in particolare per quanto riguarda gli stereotipi di genere. Non si tratta, insomma, soltanto di caratteristiche che noi attribuiamo a altri perché così siamo abituati, ma anche aspettative riguardo a noi stessi a cui tendiamo a conformarci. Gli esseri umani, e gli adolescenti in particolare, hanno un forte bisogno di riconoscimento, di accettazione e questo può passare, talvolta, con l’adesione a modelli precostituiti, stereotipati, di comportamento. Per non sentirsi diversi si può essere spinti a “aderire” a quello che la maggioranza del proprio gruppo sociale fa, a conformarsi nel linguaggio, nell’abbigliamento, nei gusti musicali, nel modo in cui si imposta la propria vita professionale o il proprio tempo libero; nel modo, anche, in cui si vivono sentimenti, emozioni e relazioni. Frasi un po’ da film come “comportati da uomo” o espressioni del linguaggio comune come “avere le palle” o “non fare la femminuccia” indicano, implicitamente dei comportamenti caratterizzati secondo il genere, a cui viene chiesto di conformarsi. In breve uno stereotipo di genere può essere definito come un’opinione secondo cui determinati comportamenti, atteggiamenti, gusti, modi di fare, attività, sarebbero tipici di un genere nella sua universalità. Ovviamente uno stereotipo può emergere perché, effettivamente, la maggioranza di un gruppo sociale assume un determinato comportamento ma, anche in questo caso, generalità non vuol dire universalità e totalità; inoltre, il fatto che un determinato gruppo adotti un determinato comportamento non implica affatto che questo sia “giusto” o “condivisibile”.

Nella nostra scuola la polarizzazione e la stereotipizzazione di genere sono molto evidenti, proprio perché un indirizzo è pressoché esclusivamente maschile e uno pressoché esclusivamente femminile, gli stereotipi e l’adesione a determinati modelli di comportamento è ancora più forte. In altre parole, è come se i ragazzi della MAT dovessero essere ancora più “maschi” e le ragazze della PCP ancora più ragazze, con i primi a sfoggiare il loro testosterone, la loro passione per moto e macchine, la loro forza fisica, e le ragazze dovessero amplificare la loro femminilità manifestando un’attenzione ossessiva per l’aspetto fisico, per la moda, per il trucco. Insomma, abbiamo sotto gli occhi, nello stesso momento, quasi i due poli estremi degli stereotipi di genere. Risulta anche comprensibile che per una ragazza possa essere complesso inserirsi in una classe della MAT e per un ragazzo inserirsi in alcune classi del PCP, al di là dell’interesse che possano provare per quei corsi, un ambiente così caratterizzato, con degli stili di comportamento diffusi così radicati, può non essere l’ideale per accogliere chi male si adatta a quegli stereotipi. Inoltre, in contesti del genere, può risultare difficile riconoscere la forza e la costanza di certi stereotipi, proprio perché rischia di mancare chi, all’interno della classe, può più facilmente, essere espressione di un punto di vista diverso. Per questa ragione è opportuno, confrontarsi insieme, trasversalmente, ragazzi e ragazze.

Ma quali sono questi stereotipi e come funzionano? In primo luogo si possono individuare almeno tre gruppi di stereotipi: quelli che riguardano la vita professionale, quelli che definiscono la vita privata e il tempo libero e quelli che riguardano la nostra vita affettiva e relazionale. Ovviamente, però tutti e tre questi gruppi condividono una serie di pregiudizi su cosa l’uomo e la donna siano o debbano essere. In generale l’uomo è chiamato a essere forte, duro, a svolgere compiti che richiedono forza e energia, la donna è chiamata a essere, invece sensibile, per certi versi delicata, può manifestare pubblicamente le sue emozioni e i suoi sentimenti, è chiamata a svolgere, in primo luogo, mansioni che abbiano a che fare con la cura e con l’educazione. Cercando di analizzare più da vicino questi stereotipi possiamo vedere che

  • Da un punto di vista professionale gli uomini devono svolgere lavori che hanno a che fare con la forza, devono essere appassionati di discipline tecniche, saperci fare con le macchine e le moto, le materie insegnate al corso MAT, dunque sono maschili per definizione – meccanica, elettrotecnica e via dicendo – mentre per le ragazze sono considerate più adatte o professioni che abbiano a che fare con la cura e l’assistenza – dalla segretaria, all’infermiera, alla maestra – o quelle che sembrano richiedere una maggiore sensibilità artistica. Il meccanico, l’idraulico, l’ingegnere, sono professioni maschili, l’infermiera, la maestra, la segretaria, così come tutte le professioni legate all’estetica, sono considerate femminili. Non solo questi stereotipi si rispecchiano nei nostri corsi di studio, la questione parte da molto più lontano, basta pensare a come spesso le stesse pubblicità dei giochi siano orientate da questi stereotipi. Negli ultimi anni molte catene di distribuzione hanno cominciato a cambiare la loro forma di comunicazione e a evitare di classificare i giochi per generi di riferimento. La casa produttrice di giocattoli Goldieblox ha pensato a una serie di kit per costruzioni specifico per bambine (qui il loro sito e qui il video di una loro divertente pubblicità). Ma si tratta di un mutamento di prospettiva ancora all’inizio, anche perché viene da chiedersi che peso abbia l’educazione familiare in tutto questo. Insomma, se genitori e parenti continueranno a regalare solo bambole alle bambine e solo giochi tecnici ai bambini, il processo sarà ancora molto lento e laborioso
  • Da un punto di vista più legato alla vita privata e al tempo libero si nota facilmente come esistano attività fortemente caratterizzate in termini di genere, basti pensare agli sport più diffusi tra ragazze e ragazzi. Tra i ragazzi lo sport più praticato, all’interno del nostro istituto così come a livello nazionale, rimane il calcio, seguito dal basket, dagli sport di lotta e di combattimento (soprattutto arti marziali e boxe), dal basket, dal tennis e dalla pallavolo; molti ragazzi seguono con attenzione gli sport motoristici. Per le ragazze, invece, le prime scelte rimangono la danza e la pallavolo; nella nostra scuola ci sono pochissime calciatrici, per esempio. Anche qui non si può individuare un’unica causa e quindi proporre un’unica soluzione, probabilmente ci troviamo dentro un circolo vizioso: se mancano le strutture è più difficile che un ragazzo o una ragazza si avvicinino a un determinato sport, ma si può anche pensare che le strutture manchino perché i ragazzi o le ragazze non chiedono di praticare determinati sport. Un altro aspetto in cui vediamo all’opera gli stereotipi di genere è quello che riguarda la cura del proprio aspetto fisico e del proprio look: un ragazzo che presta troppa attenzione a come appare è guardato con un certo sospetto, una ragazza che non lo fa è considerata sciatta e trascurata – in altri termini, un maschiaccio – le donne “vere” devono, per l’appunto, apparire curate, truccate e femminili, un ragazzo che passa troppo tempo a pettinarsi sta invece tenendo un comportamento virile. Ovviamente, vale lo stesso, almeno in parte, per film, musica e libri: i film sentimentali, o le canzoni d’amore sono tipicamente femminili, i film d’azione o le canzoni dure e aggressive sono decisamente maschili; anche se per molti ragazzi e ragazze il genere di riferimento è l’hip hop si colgono spesso delle sfumature diverse e degli ascolti orientati in termini di genere.
  • Il terzo punto è forse quello più interessante e su cui più ci preme lavorare, gli stereotipi di genere a livello emotivo, sentimentale e relazionale. Se gettiamo uno sguardo a come ragazzi e ragazze esprimono i propri sentimenti, oppure vivono le loro amicizie, notiamo subito due modelli di comportamento molto diversi. Si dà per scontato, per esempio che due amiche esprimano il loro affetto in maniera molto esplicita, anche fisica, abbracciandosi o dicendosi spesso “ti voglio bene”; tutti noi troveremo strano che due amici maschi usassero tra di loro un atteggiamento simile, molti di noi penserebbero, anche involontariamente, che sono gay. In generale i ragazzi non esprimono emozioni e sentimenti, per esempio il pianto è tollerato in una ragazza, ma molto meno in un ragazzo. Al contrario lo scatto d’ira è tipicamente maschile e lascia perplessi se a averlo è una ragazza. Anche nella vita di relazione gli stereotipi sono duri a morire, spesso si continua a pensare che debba essere il ragazzo a fare la prima mossa, che la ragazza possa soltanto lanciare dei segnali e fornire degli indizi, una ragazza troppo intraprendente è considerata un po’ troppo facile, deve essere il ragazzo a proporsi e a presentarsi, secondo la dinamica usuale di offrire qualcosa da bere alla ragazza. Ovviamente è superfluo ricordare che, soprattutto, rimane vero il grande stereotipo secondo cui un ragazzo particolarmente di successo con le ragazze è semplicemente molto fico e oggetto di ammirazione tra i compagni e gli amici, la ragazza che fa altrettanto viene prontamente etichettata come una poco di buono, secondo il modello detto, in inglese, dello slut shaming.

Ovviamente su ognuno di questi punti occorre lavorare e cercare di individuare strategie di azione e di intervento ma, nella vita dei ragazzi, soprattutto l’ultimo aspetto risulta particolarmente gravoso: gli stereotipi diventano una gabbia molto stretta per tutti noi. Può risultare davvero stressante doversi sempre e comunque conformare a questi modelli, specie quando sensazioni, emozioni o sentimenti sono coinvolti. Abbiamo detto che gli stereotipi resistono alla realtà, ma la realtà stessa può, lentamente, contribuire a metterli in discussione. Per questo motivo l’intento che orienta il nostro lavoro sarà quello di far comunicare e confrontare costantemente questi due mondi, per rendere comprensibile che il singolo essere umano è sempre più complesso e sfaccettato di quanto i rigidi stereotipi che ci gravano addosso facciano credere. Cercheremo di buttare qualche sasso nello stagno per mostrare come, allontanandoci da essi, la nostra vita possa diventare più articolata, più ricca e più soddisfacente.

Alcune riflessioni sulla vicenda Weinstein

Nell’affrontare questi problemi una premessa è doverosa: dobbiamo essere rispettosi dello stato di diritto e della presunzione di innocenza, sempre e in qualunque caso. Non ci chiederemo, dunque, se il noto produttore americano, o altri personaggi famosi denunciati in questi giorni, siano colpevoli o no. Più interessante è cercare di studiare le reazioni suscitate dalle dichiarazioni dell’attrice.

In breve i fatti, così come sono stati narrati sui media: all’inizio di ottobre, il New York Times pubblica un’inchiesta sulle molestie e sugli abusi sessuali che il noto e potentissimo produttore televisivo avrebbe commesso ai danni di molte attrici famose (qui l’articolo che ha dato inizio a tutta la vicenda). La dinamica è quella molto nota dell’offrire, in cambio di prestazioni sessuali, un rapido e repentino avanzamento di carriera che, per le attrici, comporta ottenere parti migliori e meglio pagate. Lo stesso Weinstein ha ammesso di aver assunto comportamenti inappropriati ma, al momento, ha rigettato, tramite i suoi avvocati, tutte le accuse più gravi. In seguito all’inchiesta numerose altre attrici, non citate nell’articolo, hanno denunciato le molestie subite dal produttore, tra queste l’attrice italiana Asia Argento – figlia del grande regista Dario – in questa intervista rilasciata al New Yorker. L’intervista dell’attrice offre diversi spunti di riflessione ma, in primo luogo, vorremmo soffermarci sulle reazioni che le dichiarazioni dell’attrice hanno suscitato, in particolare sui social media. Basta digitare l’hashtag #asiaargento su twitter per notare come la stragrande maggioranza dei commenti sia fortemente aggressiva nei confronti dell’attrice. I tweet sono innumerevoli e non vale la pena riportarli tutti ma gli argomenti usati possono essere ricondotti a due-tre temi ricorrenti.

In primo luogo si usa l’argomento del tempo passato: in fatto che siano passati 20 anni da questi episodi, spinge molti a ritenere poco credibili le accuse oggi riportate. La tesi è che le attrici molestate avrebbero taciuto finché ha fatto loro comodo – finché, cioè, la loro carriera non fosse stata abbastanza solida – per poi denunciare quando non avevano più niente da perdere. In pratica, che queste molestie siano direttamente legate a uno squilibrio di potere, con le donne nettamente dal lato “debole”, sarebbe una responsabilità delle vittime. Denunciare le molestie, per molte di loro, poteva significare unire al danno delle molestie subite, la beffa delle ritorsioni, e rischiare, in altri termini, di compromettere la carriera. I feroci critici di Asia risponderebbero affermando che si tratta di carriere milionarie che non si sta parlando di cameriere che rischiano di finire in miseria se licenziate. Al riguardo occorre tenere presente che a) in molti casi si trattava di attrici giovani, all’inizio della loro carriera e b) che, ragionando in questo modo, si rischia di arrivare a pensare che sia meno grave una violenza subita da un’attrice rispetto a quella subita da, diciamo, una cameriera. Qualcuno su twitter, esplicitamente, afferma che Asia Argento sarebbe “un insulto a tutte le donne stuprate veramente“.

Il secondo tema ricorrente è quello del passato dell’attrice: dal momento che, durante la sua carriera, Asia Argento ha recitato in parti provocatorie, o che, in sostanza, abbia costruito per sé l’immagine della cattiva ragazza, destituirebbe di fondamento le sue accuse. Non si arriva quasi mai a sostenere che se la sia cercata, ma ci avviciniamo parecchio: dal momento che lei è una cattiva ragazza, magari pure un po’ “troia”, non ha alcun diritto di ergersi a paladina delle brave ragazze vittime di violenza. Al riguardo, hanno ripreso a circolare su internet varie immagini provocatorie dell’attrice, allo scopo, per l’appunto, di sminuire la portata delle sue parole. Non è certo una novità, molto spesso, quando tra i fatti di cronaca compaiono stupri e violenze sulle donne è, purtroppo, abbastanza frequente che cominci il lungo refrain del “se l’è cercata”, basti pensare ai recenti fatti di Firenze, in cui l’abuso di alcol delle due studentesse americane le avrebbe rese corresponsabili, o addirittura uniche responsabili, delle violenze subite. Recentissimo è il caso del parroco bolognese che, in un commento su Facebook in riferimento a una violenza subita da una ragazza proprio in centro a Bologna, ha scritto di non provare alcuna pietà per la ragazza, “colpevole” di aver bevuto un po’ troppo e di aver passato la serata con un ragazzo maghrebino. Il post è stato cancellato da Facebook ma, in questo articolo de L’Espresso, si trova lo screenshot. Insomma, siamo quasi al “sei uscita in minigonna e poi hai pure il coraggio di lamentarti?”. Nel caso di Asia non siamo a questi punti, almeno per quanto è emerso dalle nostre ricerche, ma rimane diffusa l’idea che esistano vittime di serie A, “vere” e vittime di serie B, che non hanno il diritto di lamentarsi, in virtù di una loro condotta giudicata moralmente sbagliata o censurabile. Chiaramente che bere moltissimo e ubriacarsi fino a perdere i sensi non è un’ottima idea ma, non di meno, vale a giustificazione di una violenza.

In terzo luogo ritorna il tema del denunciare per accaparrarsi titoli di giornale, interviste in tv e, magari, per rivitalizzare una carriera in fase di stallo. La denuncia sarebbe, dunque, soltanto un modo per farsi pubblicità. Alcuni giornali e diversi utenti dei social networks non hanno mancato di notare come, in questi giorni, Asia Argento sia stata chiamata a dirigere una sezione del Torino Film Festival, legando, evidentemente, le denunce alla nomina. Si tratta un po’ del metodo con cui vengono costruite le teorie del complotto: si prendono due “fatti” o due “eventi” e, invece di indagare se, davvero, esista una correlazione, la si postula, dandola, in qualche modo, per scontata.

Il dato più sorprendente è che la maggioranza dei commenti critici o palesemente offensivi nei confronti di Asia Argento provengono da donne. Sicuramente è del tutto comprensibile che un personaggio così controverso non stia simpatico a tutti, ma è sorprendente come, da parte in particolare del mondo femminile, manchi una minima dose di empatia che consenta di comprendere e di rispettare la persona coinvolta. Pare che molte donne non considerino l’attrice degna di rispetto, e sorprende come in molti e in molte, si sentano di dover esplicitamente segnalare il loro disprezzo. La valanga di odio che si è riversata sull’attrice è sinceramente inquietante perché segnala quanto il sessismo in Italia sia ancora un problema, per quanto si ponga in termini, per certi versi, mutati. Nessuno si permette più di dire, pubblicamente, che lo stupro non è un reato particolarmente grave o odioso, tutti sono pronti a manifestare  pubblicamente la loro solidarietà alle vittime ma molti si sentono legittimati a distinguere e discriminare tra una vera violenza e una che non lo è e non, il che sarebbe legittimo, su basi processuali ma in base a una propria scala di valori e di priorità. Se le accuse rivolte a Weinstein si rivelassero infondate, chiaramente, l’integrità morale di Asia Argento risulterebbe ampiamente compromessa, ma non è questa l’obiezione che viene mossa. Emerge, piuttosto, l’incapacità di riconoscere che una violenza è tale anche se a subirla è una persona che non ci sta particolarmente simpatica, anche se è una persona provocatoria e, talvolta, decisamente sopra le righe, anche se, e questo vale in particolare per le donne che hanno manifestato il loro odio, la vittima non rappresenta il modello di femminilità o di moralità che condividiamo.

Se, però, torniamo alle parole dell’attrice, possiamo capire, almeno in parte, le dinamiche che spingono molte donne a non denunciare, Asia Argento afferma esplicitamente di essersi sentita per anni responsabile dell’accaduto, e di non aver fatto abbastanza per impedirlo. Oltre alla paura di vedere la carriera rovinata – altro tema che emerge nell’intervista – qui troviamo un tema più generale, sul quale occorre riflettere. Paradossalmente, al pari di molti dei suoi haters, anche Asia sembra sostenere di essersi pensata non come una “vera” vittima ma piuttosto quasi come complice della violenza subita. Il punto su cui occorre vigilare e riflettere è proprio questo: nonostante i progressi legislativi e sociali, la violenza sulle donne ha ancora un posto particolare nella nostra coscienza collettiva, si fa fatica a riconoscerla e a guardarla in faccia per quello che effettivamente è: un crimine grave e odioso, senza se e senza ma a accompagnarlo.

In questo quadro che spingerebbe a un cupo pessimismo, però, possiamo notare che è esistito e si è diffuso un altro uso dei social network: attraverso l’hashtag #metoo molte donne e ragazze hanno cominciato a denunciare, spesso semplicemente ricorrendo all’hashtag, di essere state anche loro vittime di violenze e di molestie. Fa piuttosto impressione vedere amiche o persone che conosciamo da molti anni, segnalare questo fatto inquietante, specie se noi per primi non ne sapevamo nulla. Lo confessiamo, la prima reazione è stata quella di un vortice di angoscia nel vedere persone insospettabili denunciare fatti molto gravi. Però, riflettendoci, viene in mente che, forse, se in molte si riconoscono come vittime, la dinamica del sentirsi corresponsabili può essere spezzata. Finché io sono l’unica a pensare di aver subito una violenza, posso anche pensare, in qualche modo, di essermela andata a cercare, o di non aver fatto il necessario per evitarla. Se invece ci si riconosce in tante, diventa molto più difficile credere che TUTTE le vittime abbiano qualcosa da rimproverarsi e, magari, parlare e denunciare potrà diventare un po’ più agevole.

L’hip hop è davvero sessista?

Se si dovesse indicare un linguaggio musicale dominante tra i ragazzi del 2017, sicuramente non si potrebbe non menzionare l’hip hop, genere che risulta essere assolutamente dominante negli ascolti delle nuove generazioni. Il Prof., premettendo di essere completamente ignorante in materia e di essere cresciuto con il rock degli anni ’90, ha deciso di discuterne con Zohuir Darhdourhi, studente della IV MAT, membro della redazione del blog e, decisamente, un’autorità in materia.

 

D. Caro Zohuir, andiamo subito al punto, secondo te l’hip hop è davvero sessista?

Zohuir: La risposta immediata è certamente sì, anche se, ovviamente, si possono fare varie distinzioni. In un certo senso si può dire che l’hip hop viva di stereotipi, l’immagine tipica del rapper è quella di un ragazzo di colore che, venendo dal ghetto e da situazioni di disagio di vario genere, riesce a farcela, a ottenere successo. Questo successo, spesso, si manifesta nello sfoggio un po’ kitch del denaro guadagnato e nel numero di conquiste femminili. Sicuramente lo stereotipo del rapper è legato alla cultura delle gang: il rapper deve essere un duro, essere cresciuto in strada, non dimostrare alcuna particolare sensibilità; l’amore, per esempio, non è quasi mai presente nell’hip hop mainstream. Di conseguenza le relazioni con le donne sono sempre rappresentate dal punto di vista sessuale, e le donne ridotte a trofei da conquistare. Poi ovviamente, in molti casi la cosa diventa un po’ ridicola perché quegli stessi rapper, magari, non hanno davvero quella cultura alle spalle, non vengono dal ghetto o, comunque, non lo rappresentano più.

 

D. Ok, posso capire, ma mi chiedo, per quale ragione le donne, nelle canzoni hip hop, vengono sempre apostrofate con epiteti volgari?

Zohuir: Beh, è ormai un immaginario dominante, se prendiamo canzoni come Bad B***h di French Montana o Bank Account di 21 Savage, per citare le prime due che mi vengono in mente. Qui l’immaginario è molto chiaro e molto semplice. Soldi e donne, che sono sempre, inevitabilmente b****es. Il tutto sta diventando un po’ ridicolo, perché i temi ricorrenti in un certo tipo di hip hop sono davvero sempre gli stessi. Anche se musicalmente possono essere molto interessanti, da un punto di vista di testi e di approccio stanno diventando banali. Per non parlare poi di testi francamente tremendi come quelli di Bouncing on my d**k di Tyga

 

D. Si potrebbe dire che, in un certo senso, l’hip hop è sempre stato accusato di essere sessista, ritieni che, però, la situazione sia peggiorata?

Zohuir: Sicuramente è peggiorata, anche perché il successo di molti rapper è diventato virale, facendo sì che quel tipo di immaginario diventasse assolutamente dominante.

 

D. In effetti, dall’alto della mia ignoranza, mi ricordo, nella mia adolescenza, un altro tipo di hip hop, magari molto crudo, ma che aveva anche degli intenti politici, o, almeno, di racconto e di denuncia. Non so, mi viene da pensare ai Public Enemy, per esempio, che volevano essere una sorta di coscienza musicale delle comunità nere dei ghetti.

Zohuir: Guarda, basta pensare anche a personaggio come Dr. Dre. Sicuramente non manca il linguaggio crudo e si trovano immagini sessiste, talvolta, ma il suo intento non è necessariamente di elogiare quel mondo, quanto piuttosto di descriverlo, di farcelo vedere da vicino. Anche Eminem, secondo me, è diverso. Certo, alcune femministe lo hanno accusato di essere misogino e, ascoltando alcuni vecchi pezzi, emerge, se vogliamo, anche un aspetto razzista. Però un conto è descrivere un mondo, e usare il suo linguaggio, anche se molto crudo, un conto è crearne uno artificiale, che è quello che succede a tanto hip hop contemporaneo.

 

D. Da ascoltatore di rock devo evidenziare una differenza: certo anche tanto rock ha tratti machisti, misogini e sessisti ma, intanto, lo scenario della musica rock mi pare più vario e meno stereotipato, ma magari è solo perché lo conosco meglio e ci sono più affezionato. Però è fuori di dubbio che alcune grandi rockstar del recente passato – mi viene in mente Kurt Cobain (qui un bell’articolo su quanto Cobain fosse una bella persona) – hanno espressamente discusso e criticato sessismo e misoginia, ecco, nel mondo dell’hip hop non mi viene in mente nessuno del genere.

Zouhir: Grandi rapper che hanno pubblicamente criticato un certo tipo di linguaggio o di immaginario non mi vengono in mente, però un personaggio come Macklemore (qui il public statement di Macklemore) si è pubblicamente espresso contro l’omofobia, che, nel mondo dell’hip hop, è diffusa tanto quanto il sessismo. Insomma, qualcosina si muove.

 

D. A questo punto direi che una domanda sorge spontanea, detto che l’hip hop contemporaneo ha una forte tendenza sessista, che mi puoi dire del fenomeno delle rapper donne? Ti sembra che stiano contribuendo a cambiare questo modo di vedere le cose?

Zohuir: In realtà anche le donne, spesso, sembrano parte dello stesso tipo di immaginario, sembra che lo riconoscano e lo condividano. Basta pensare a personaggi di successo planetario come Nicki Minaj. Talvolta sembra quasi che siano le prime a rendersi disponibili a un certo tipo di discorso su di loro e sul loro corpo, un pezzo come Motor Sport di Migos ft. Nicki Minaj e Cardi B. è un buon esempio di quello che voglio dire. Mi sembra, insomma, che anche le rapper, almeno quelle mainstream, facciano fatica a sganciarsi da un certo immaginario, anzi sembrano condividerlo in pieno.

 

D. Leggevamo poco fa di questa dichiarazione un po’ fuori luogo di Rick Ross, riguardo alla possibilità di avere delle rapper donne nella sua etichetta discografica. Il senso è che lui, probabilmente, proverebbe a portarsele a letto.

Zohuir: Rick Ross, musicalmente, fa cose molto interessanti e fighe, però, ecco, il punto è sempre quello: il cattivo ragazzo che si guadagna una credibilità in questo modo.

 

Negli ultimi anni è successo, talvolta, che a alcuni rapper, sia stato impedito di suonare proprio perché censurati in virtù dei contenuti sessisti dei loro brani, è quanto accaduto, per esempio, ad Action Bronson, nel 2015 in Canada: un suo show è stato vietato perché in alcuni suoi testi si configurerebbero come hate speeches. Al riguardo il dibattito, ovviamente, è aperto. Sicuramente la censura non sembra una soluzione adeguata e qui si può trovare un interessante riflessione sul tema da un punto di vista femminista. Il dato interessane è che si auspica un maggior coinvolgimento delle donne come protagoniste in prima persona della scena hip hop. Ma, a quanto pare, anche le rapper fanno fatica a svincolarsi da certi codici espressivi. Quello che è certo è che, data l’influenza che l’hip hop ha nella vita di moltissimi ragazzi, non possiamo permetterci di non interessarcene e di sottovalutarlo.

Il calcio è ancora una “cosa da maschi”?

Alessandra e Alessia, due studentesse della II AFM da anni si dedicano allo sport “maschile” per eccellenza, il calcio. Proprio nei giorni dell’eliminazione dell’Italia maschile dai play-off per il mondiale russo, su diversi social network e su alcuni giornali, è partita una campagna polemica che ricorda come la nazionale femminile sia ancora in corsa per qualificarsi, nonostante, fino a quattro giorni fa, nessuno ne parlasse sui media nazionali di maggior seguito. Agli occhi di osservatori esterni – come i nostri – il calcio femminile rimane ancora qualcosa di misterioso e carbonaro, un mondo a parte ancora circondato da pregiudizi e stereotipi. Non c’era occasione migliore per parlare con due delle nostre calciatrici.

DOMANDA: Care Alessia e Alessandra, da quanti anni giocate a calcio?

Alessia e Alessandra: Abbiamo cominciato quando eravamo in V elementare, qui a Castiglione fu lanciata una squadra di calcio femminile che ottenne, all’inizio, grande successo. Purtroppo il successo fu di breve durata, già al secondo anno non avevamo più i numeri per avere una squadra femminile – le ragazze rimaste erano solo cinque o sei – e fummo aggregate alla squadra maschile. Poi le nostre strade si sono divise.

Alessia: Poi abbiamo fatto un provino per la squadra femminile del Bologna, è andato molto bene e da due anni gioco con loro.

Alessandra: Anche io ho fatto il provino e anche a me non era andato male, ma non me la sono sentita di sostenere la fatica degli spostamenti. Inoltre io e Alessia saremo finite a giocare in due squadre diverse. Ho giocato per un anno a San Benedetto, sempre con i ragazzi. Poi, siccome avevamo raggiunto il limite di età per giocare con i maschi, sono stata ferma due anni. Da quest’anno a Castiglione, il calcio femminile è tornato, ma non abbiamo ancora una squadra di calcio a 11, dobbiamo accontentarci del calcio a 5.

D. In quale ruolo giocate?

Alessia: Io faccio il portiere.

Alessandra: Io sono centrocampista, diciamo più o meno che sono un regista.

D. Mi pare di capire, quindi, che il calcio femminile non è ancora molto praticato, né diffuso

Alessandra: Sicuramente, considerate che le squadre e le praticanti sono così poche che io mi trovo a giocare spesso contro delle adulte, non riusciamo a rispettare le varie divisioni anagrafiche tipiche delle squadre maschili.

Alessia: almeno nel Bologna, riusciamo a avere tutte le squadre giovanili.

D. Quindi il calcio non è ancora considerato un’opzione da molte ragazze, direi

Alessandra: Credo che per molte ragazze le prime opzioni rimangano la pallavolo e la danza

Alessia: Decisamente, pallavolo e danza rimangono le scelte più ovvie e più comuni per delle ragazze che vogliono fare sport. Non è solo una questione di pregiudizi o di stereotipi ma anche di strutture, in ogni paesino c’è almeno una palestra per fare danza e una squadra di pallavolo. Per il calcio le strutture ci sarebbero, ma manca l’organizzazione per diffondere e rendere più popolare il calcio femminile.

Alessandra: Il calcio femminile è talmente insolito, almeno qui da noi che, alla nostra prima partita, c’erano più di cento spettatori, quando, di solito, per incontri del genere, se ne vedono solo una trentina. Per dire, anche noi, da piccole, prima che facessero la squadra di calcio facevamo danza.

Alessia: Sì, ma non ci piaceva per niente.

Alessandra: Inoltre rimangono molti pregiudizi intorno al mondo del calcio femminile, spesso si continua a pensare che sia uno sport “da lesbiche”.

Carlo: In effetti, pare che anche il Presidente della Lega Nazionale Dilettanti, in cui rientrano anche le squadre femminili, riferendosi alle donne che giocano a calcio, abbia usato l’espressione “quattro lesbiche”.

Alessia: Beh, ci saranno sicuramente casi di omosessualità nel mondo del calcio femminile, forse, percentualmente, qualche caso in più che nel resto della popolazione, ma non mi pare questo il punto.

Zohuir: Ci saranno sicuramente anche alcuni calciatori gay, solo che non lo dicono.

Carlo: A me non viene in mente nessun calciatore in attività che abbia fatto coming out, a voi?

Zohuir: Direi proprio di no.

Carlo: Probabilmente si fondono, inconsciamente, due stereotipi: da un lato l’idea che il calcio sia uno sport da maschi, dall’altro si pensa che le donne omosessuali siano più maschili o meno femminili delle donne eterosessuali. Per cui si fa 2+2 e si tende a pensare che le donne che giocano a calcio siano necessariamente omosessuali.

D.Vi è mai capitato di essere etichettate come omosessuali perché giocate a calcio?

Alessia e Alessandra: Personalmente no, ma a alcune nostre compagne è successo.

D. Come vi siete avvicinate al calcio, visto che per le ragazze rimane una scelta insolita?

Alessandra: Beh da bambine eravamo tutte e due un po’ dei maschiacci, con molti amici maschi, giocare a pallone il pomeriggio era perfettamente naturale. Inoltre, sia mio padre che il padre di Alessia giocavano a calcio e capitava che ci portassero alle partite. Non che i nostri genitori abbiano fatto pressioni per farci giocare, ma è chiaro che, per noi, il calcio giocato è sempre stato parte delle nostre vite.

Alessia: Beh sì, nessuna pressione, però è chiaro che per noi, a differenza di molte altre ragazze, giocare a calcio è sempre stato del tutto normale.

Alessandra: Le famiglie, anche se non fanno pressioni, hanno un peso nelle scelte, è chiaro che, in famiglie dove il calcio non è praticato, sia magari più raro che si pensi di farlo giocare a una figlia, mentre rimane, nettamente, la prima opzione per i maschi. Infatti tutti e quattro i nostri compagni di classe maschi giocano a calcio.

Alessia: in tutta la nostra scuola credo che le calciatrici siano non più di quattro o cinque.

D. Seguite il calcio femminile?

Alessandra: io seguo per lo più quello maschile ma perché di calcio femminile se ne vede poco in televisione e spesso sono partite “brutte”. Non perché le ragazze siano scarse ma perché spesso è un prodotto confezionato male, su cui si vede che si fanno pochi investimenti economici. Gli stadi sono brutti, la qualità delle riprese è molto bassa, insomma è meno bello da vedere.

Alessia: Quando posso, una partita di calcio femminile me la vedo ma, effettivamente non è facile.

D. Quindi, durante questi anni di calcio, avete notato un miglioramento per quanto riguarda il calcio femminile, sia come numero di praticanti che come attenzione generale dell’opinione pubblica?

Alessia: A occhio e croce direi di no

Alessandra: Spero nel futuro, ma temo che, per adesso, il calcio rimanga, in generale, uno sport da maschi.

“Spietato e inesorabile è lo sguardo maschile”

Giovanna ci ha consegnato un piccolo sfogo su come ci si sente a essere continuamente sotto osservazione da parte dei ragazzi, ad avere, spesso, la sensazione di essere guardate come un oggetto o un pezzo di carne.

Mi hanno chiesto di spiegare che cosa provassimo noi ragazze ogni volta che, andando in discoteca, a “fare serata”, a distrarci un po’, a trovarci oggetto delle attenzioni indesiderate dei maschi; beh io a questa domanda rispondo con un’altra domanda: come si sentirebbe un cervo accerchiato da un branco di lupi? Quante volte il maschio alpha, convinto di possedere qualità che nessuno gli ha mai riconosciuto, vi tocca, vi palpeggia, cerca di stringervi a lui, di farvi sentire la sua presenza? Che schifo; lo ripeto, la sensazione che proviamo è schifo. Se vi interrogaste un attimo su come possiamo sentirci, su quali siano le nostre reazioni, vi accorgereste che sono esattamente opposte a quelle che credete. Non ci sentiamo lusingate perché ci apprezzate, né proviamo alcun piacere in seguito a questi gesti; ci sentiamo schifate, a volte spaventate, ma più ancora, è la rabbia a dominare perché, ancora nel 2017, non riusciamo ad avere al 100% la sicurezza di non essere soggette a sguardi indiscreti, fischi o complimenti indesiderati. Per me è già violenza, come è violenza la vostra insistenza dopo aver ricevuto il primo no. No è un no, non è un sì sotto mentite spoglie!

Abbiamo usato una citazione di una canzone de I Cani per chiedere alle ragazze come ci si sente. E per chiedere ai ragazzi quali possono essere le ragioni di tali comportamenti; dopo lo sfogo di Giovanna, ci ritroviamo a parlare con Mirea, Sara, Luca e Gabriel proprio di questi temi.

D. Care ragazze, a voi sono mai capitate situazioni del genere? Non mi riferisco tanto a casi di molestie o di vere e proprie violenze, ma di essere state oggetto di reiterate attenzioni, esplicite e pressanti, di ragazzi che non vi interessavano?

Mirea e Sara: Certo che è successo, succede molto spesso quando andiamo a ballare o alle feste. Non è piacevole, ma è qualcosa che ormai, mettiamo in conto. E non succede mica solo alle feste o in discoteca.

Luca: In effetti è vero, solitamente gli uomini sono più fisici, più diretti, le donne, di solito preferiscono approcci diversi.

Sara: Ricordo una volta che stavo tornando a casa a piedi e una macchina con sopra dei ragazzi mi si è accostata. Hanno iniziato a chiedermi, insistentemente, se avessi bisogno di un passaggio. Ovviamente, io ho avuto molta paura e sono corsa verso casa

Mirea: é capitato anche a me, in effetti, aspettavo la corriera e una macchina si accosta, io, per paura mi sono attaccata immediatamente al telefono.

D. Da cosa avete intuito che non avessero buone intenzioni?

Mirea e Sara: Beh, non li conoscevamo e erano diventati molto insistenti, poi è una di quelle situazioni in cui una ragazza non si sente troppo al sicuro, considerando anche il fatto che, mediamente, siamo fisicamente più deboli degli uomini.

Gabriel: Questo punto è interessante, un ragazzo non rifiuterebbe mai un passaggio in macchina da una ragazza, specie se è carina. Noi non pensiamo mai che una ragazza possa farci del male.

Mirea: Invece i ragazzi possono metterti fisicamente in soggezione

D. Ragazze, vi è mai capitato di scegliere come vestirvi, per esempio, non in base ai vostri gusti e ai vostri desideri, ma tenendo in considerazione questo tipo di fattori? Gli occhi e le mani dei ragazzi vi spingono a non fare quello che desiderate?

Mirea e Sara: Ovviamente è così, spesso. Non decidiamo cosa indossare in base al nostro gusto, sappiamo che, se mettiamo una minigonna, o cose del genere, attrarremo sicuramente un certo tipo di attenzioni indesiderate.

Gabriel: Solitamente, i ragazzi concentrano le loro attenzioni sulle ragazze meno vestite, per molti di noi è come un segnale di via libera.

Mirea e Sara: Ma il problema non è quello di ricevere attenzioni, quello può pure far piacere, è il modo che diventa fastidioso, che ci costringe a passare serate a scansare mani e occhiate.

D. Esattamente, mi pare che il problema su cui dobbiamo ragionare è proprio quello del limite, mi pare che, in quei contesti, molti ragazzi manchino di empatia e di amor proprio, diventano incapaci di cogliere che tipo di reazioni stanno realmente suscitando.

Gabriel: Ma infatti, ancor prima di questioni etiche e morali, mi chiedo come sia possibile che questi ragazzi non si sentano in imbarazzo, che non si rendano conto di diventare fastidiosi e, a volte, persino ridicoli. Voglio dire, ricevi un rifiuto? Ritirati con onore, no? I maschi, spesso fanno fatica a accettare un rifiuto.

Sara: Infatti la cosa che mi dà più fastidio è quella; voglio dire, non c’è niente di male se un ragazzo si avvicina, prova a chiacchierare, ti offre da bere, cose così, il problema è che, quando fai loro capire di non essere interessata, si appiccicano e diventano insistenti

Mirea: Ma infatti non si tratta di fare le bacchettone, si tratta di rispettare delle regole, non sono le attenzioni dei ragazzi che ci danno fastidio, sono QUEL genere di attenzioni a essere insopportabili, a volte devi divincolarti perché ti ritrovi le mani dappertutto.

D. Una domanda per voi maschietti, partendo dal presupposto che voi siete bravissimi ragazzi e che non avete atteggiamenti del genere, immaginiamo che vediate un vostro amico diventare insistente con una ragazza, quale sarebbe la vostra reazione?

Gabriel: Beh, sinceramente, finché la cosa rimane nei limiti di un approccio educato, facciamo il tifo per lui.

Luca: Se si superano certi livelli, però, bisogna intervenire e cercare di far ragionare il soggetto. Poi, magari, puoi pure provarci tu, dopo averla liberata dal fastidio, ma sempre in modo gentile.

Gabriel: Chiaro che, quando si superano certi limiti, per lo stesso bene del ragazzo, è opportuno intervenire, e provare a farlo ragionare. Il problema di queste dinamiche è che poi le ragazze sono fredde e scostanti anche con ragazzi che non stanno facendo nulla di male.

Mirea: Certo, è chiaro che, se l’80% dei ragazzi ha un approccio rude e aggressivo, io mi metto sulla difensiva; atteggiamenti del genere, ovviamente, ci rendono più chiuse e sospettose. Anche a discapito di chi si presenta in modo educato e gentile.

D. Io credo che la questione possa essere riassunta in questi termini: i ragazzi, talvolta, mancano di empatia, non riescono, cioè, a immaginare come i loro atti e le loro parole possano pesare sulle altre persone.

Sara: Beh, in effetti, molti ragazzi hanno problemi a metabolizzare un rifiuto. E noi, spesso, ci sentiamo in balìa dei maschi.

Mirea: Specie quando siamo circondate da persone che non conosciamo.

D. Mi pare di capire, però, che lo schema per cui deve essere il ragazzo a tentare il primo approccio non sia cambiato.

Gabriel: Eh, questo è un problema, per noi, da un lato, se ci avviciniamo noi abbiamo paura di essere troppo insistenti, dall’alto le ragazze si aspettano che facciamo sempre noi la “prima mossa”.

Mirea: Certo che dovete fare voi la prima mossa! Se noi diventiamo troppo intraprendenti, ci date delle poco di buono (N. B. “poco di buono” è un eufemismo, l’espressione letterale era un’altra).

Gabriel e Luca: Sì, ma in questo modo non ci capiamo più niente, se ci approcciamo noi, abbiamo paura di sbagliare e di fare qualcosa che non va, e voi non fate un passo!

Mirea e Sara: Cari maschietti, dovreste imparare a leggere gli impliciti. E a mettervi nei nostri panni, non è facile nemmeno per noi.

Il nostro strano, piccolo mondo

 

Il nostro progetto nasce in un contesto particolare: siamo una piccola scuola di montagna di nemmeno 400 studenti, ma dietro alle piccole dimensioni del nostro istituto si nasconde una notevole complessità.

Intanto, parliamo di Castiglione dei Pepoli: un piccolo paesino di poco più di 5000 abitanti, arrampicato sull’Appennino emiliano ma prossimo al confine con la Toscana. Una parte consistente dei nostri studenti provengono, infatti, dai paesi della montagna pratese, come Vernio o Montepiano. Una scuola piccola, di provincia, ma quasi di frontiera, per certi versi. Una scuola diversa dalle altre. Per chi ama i paesaggi di montagna, qui una gallery di foto del nostro territorio.
Il nostro istituto si articola in ben quattro indirizzi, il Liceo Scientifico, il corso di Amministrazione, Finanza e Marketing, quello di Servizi Commerciali/Progettazione Commerciale e Pubblicitaria e, infine, quello di Manutenzione e Assistenza Tecnica. Se i primi due indirizzi presentano classi miste, seppure con una prevalenza della componente femminile, i due indirizzi professionali, invece, sono fortemente polarizzati, si direbbe quasi “segregati”: il corso SC/PCP, nell’anno scolastico 2016/2017, è a nettissima prevalenza femminile, sono soltanto cinque, in tutte e cinque le classi, gli studenti maschi, il corso MAT, al contrario, vede iscritta una sola studentessa in tutte e sei le classi. Non è certo un dato sorprendente, non è una novità che alcuni indirizzi siano, almeno nella percezione che si ha di loro, prettamente “maschili” e altri prettamente “femminili”; il nostro obiettivo, però, è cercare di comprendere come mai questi stereotipi siano così radicati nel nostro modo di vedere l’istruzione e il mondo del lavoro e capire se, dietro agli stereotipi, o accanto a essi, si nasconda nell’ambiente di certe scuole e di certi indirizzi, qualcosa che allontana le ragazze e i ragazzi da determinati corsi di studio.

Grafici_Indirizzi
La diversa distribuzione per generi nei tre indirizzi della scuola coinvolti nel progetto

Guardandoci attorno, nello strutturare questo progetto, ci siamo resi conto di quale grande risorsa fosse già disponibile all’interno della nostra scuola: a differenza di altre scuole di città, infatti, da noi ci sono sia ragazze che ragazzi, che condividono ogni giorno gli stessi spazi, che si incontrano durante gli intervalli, che, spesso si conoscono fin dagli anni delle elementari. Si tratta, in fondo, di compiere un’operazione molto semplice, mettere insieme ragazzi e ragazze e provare a riflettere, insieme, su questi temi, cominciando col porsi domande molto semplici: perché voi ragazze non vi siete iscritte al corso professionale? lo avete preso in considerazione? e se no, per quali ragioni? Ovviamente, all’inverso, possiamo porre le stesse domande ai ragazzi riguardo al corso di grafica per cercare di capire quanto, nelle scelte di studio, di lavoro o di vita, ci sia di liberamente scelto e quanto, invece, di condizionato dalla cultura e dalla società in cui siamo immersi.
Noi a scuola lavoriamo all’interno di una situazione già stabilita, i ragazzi hanno già scelto che indirizzo seguire; abbiamo pensato, quindi, che fosse opportuno provare a parlare con gli studenti e le studentesse che hanno visitato il nostro istituto durante i due Open Days tenuti tra dicembre e gennaio.

Le indicazioni emerse sono significative: l’interesse per il corso di grafica pare in crescita, anche tra gli studenti maschi; non si può dire lo stesso del corso MAT, che suscita ancora l’interesse di un’utenza esclusivamente maschile. Le ragazze dell’ultimo anno delle medie non danno indicazioni particolarmente utili al riguardo: si limitano a dire che non sono particolarmente interessate all’indirizzo o alle materie. Non si capisce, insomma, se pesi la componente esclusivamente maschile degli studenti, se perché esista un pregiudizio sulla qualità del corso in sé o se, semplicemente, le ragazze non sono spinte a seguire questo genere di studi. In effetti, il dato non desta stupore, è perfettamente in linea con quelli regionali e nazionali, ma non di meno, rimane abbastanza sorprendente nella sua nettezza.

Siamo poi passati a lavorare in due direzioni: la prima a formare il gruppo di lavoro, a cercare di mettere in luce quali tematiche e quali aspetti le ragazze e i ragazzi coinvolti ritenessero più significative: in particolare è stato importante e stimolante confrontarsi sui temi del reciproco sguardo, sugli stereotipi che le ragazze hanno riguardo i ragazzi, tanto quanto sugli stereotipi che orientano la concezione maschile del mondo femminile. Anche per far capire alle stesse ragazze quanto fuorviante possa essere lo stereotipo dello studente del professionale rude, poco sensibile, magari un po’ volgare. Non è facile spingere i ragazzi a parlare di sé su questi temi ma, rotto un primo momento di imbarazzo e di difficoltà, le chiacchierate, i brainstorming, il lavoro di formazione e di autoformazione che abbiamo cercato di portare avanti ha cominciato a dare i suoi frutti, i primi costituiscono gli articoli che comincerete a leggere qui. Cercare di far scoprire come, dietro a stereotipi rigidi e immutabili, si muovano persone in carne e ossa, come, in sostanza, cercare di comunicare in maniera più aperta sia il primo passo da compiere per superare pregiudizi e preconcetti.

Abbiamo poi dovuto cercare di compiere una ricognizione all’interno dell’istituto, per cercare di mettere a fuoco le criticità e i problemi più evidenti: abbiamo cominciato a intervistare gli studenti, partendo proprio da quelli della MAT e allargandoci a quasi tutto l’istituto. Abbiamo posto loro alcune semplici domande riguardo la scuola, su come si trovino in classi esclusivamente maschili, se la presenza femminile possa o meno migliorare il clima nella classe. Abbiamo posto loro alcune domande sulla loro vita privata, se abbiano o meno amiche femmine, se in casa i lavori domestici siano svolti o meno esclusivamente dalle donne (madri, nonne, sorelle), abbiamo poi posto loro un semplice indovinello:

Padre e figlio sono in macchina e, purtroppo, subiscono un incidente grave; il padre muore sul colpo, il figlio, invece, se la cava ma deve essere portato d’urgenza in ospedale per un’operazione, il chirurgo, però, guardando il ragazzo, esclama: “non posso operarlo, è mio figlio”. Chi è, dunque, il chirurgo?

  • Partiamo proprio da quest’ultimo esempio: nessuno, né ragazzi, né ragazze, ha saputo fornire la risposta corretta, che è, semplicemente, la madre, segno di quanto gli stereotipi incidano in profondità sul nostro modo di vedere le cose. I ragazzi si sono sbizzarriti in una serie incredibile di interpretazioni fantasiose e bizzarre, immaginando storie di tradimenti, di figli illegittimi, di adozioni, senza nemmeno considerare la risposta logicamente più semplice ma più lontana dai nostri pregiudizi sul mondo.
  • Per quanto riguarda le domande a fini “statistici” il quadro si rivela interessante: i ragazzi ritengono, a grandissima maggioranza che la presenza femminile in classe migliorerebbe la loro vita scolastica ma, allo stesso tempo, non credono che potrebbe garantire un miglioramento della disciplina e dell’attenzione, anzi, secondo molti, per catturare l’attenzione delle ragazze, potrebbero finire a mettersi in mostra ancora di più, rendendo ancora peggiore il clima a scuola. Le ragazze, invece, sono meno concordi: alcune di loro ritengono che la presenza di ragazzi in classe potrebbe fare da collante, molte affermano che, nelle classi esclusivamente femminile, i livelli di litigiosità e di tensione tra i vari gruppi, sono molto più alti che nelle classi miste o in quelle maschili, se i ragazzi, solitamente, sono più confusionari e agitati, le ragazze tendono a sviluppare maggiore ostilità tra di loro, e a litigare molto spesso; in molte, però, non vedono di buon occhio l’idea di avere più ragazzi in classe, si sentirebbero spesso osservate, e manifestano il timore di venire apostrofate con termini non sempre carini, il che, di fatto, è piuttosto frequente.
  • Molto interessante è che quasi tutti gli studenti hanno gruppi di amicizie misti, il che è abbastanza comprensibile, dato il contesto: tanti ragazzi, cresciuti negli stessi paesi, si conoscono fin dalle elementari, per cui amicizie anche molto strette tra ragazzi e ragazze sono all’ordine del giorno. Qui si apre una questione interessante: proprio quei ragazzi che, spesso, ricorrono a epiteti volgari nei confronti di donne o ragazze che non conoscono, sono in realtà amici molto carini, educati e sensibili, trattano con rispetto e attenzione le amiche, e hanno codici di comportamento e morali assolutamente solidi e inappuntabili. Si tratta proprio della scissione su cui possiamo lavorare: è come se gli stereotipi di genere si allentassero, almeno parzialmente, quando si è in presenza di una comunicazione aperta, leale e sincera.
  • Per quanto riguarda, però, la distribuzione dei ruoli a casa, molto spesso lo scenario è quello che gli stereotipi suggerirebbero: la gran parte delle faccende domestiche ricade sulle madri, talvolta aiutate dalle figlie, o dalle nonne; assai più raro l’aiuto dei padri, pressoché nullo quello dei figli maschi. Vale lo stesso per le relazioni scuola-famiglia, ai ricevimenti e ai colloqui le madri rappresentano la grande maggioranza e, spesso, rimane presente la dinamica per cui il padre viene coinvolto solo in caso di eventi gravi, spesso con lo scopo esclusivo di punire il figlio.

Dato questo contesto, il primo obiettivo sarà quello di cercare di bonificare il linguaggio, specie dei ragazzi, di cominciare a ripulire la comunicazione, di tenere sempre presente che siamo di fronte a esseri umani in carne e ossa e non a stereotipi con le gambe o a metonimie basate sugli organi genitali

“Che cosa ci faccio qui?”

Confessione del Prof. Sono stato io il primo a pormi questa domanda, il progetto è arrivato, lo abbiamo costruito, abbiamo provato a progettarlo, ma era tutto, per me, al buio. Sia chiaro, sono temi che mi stanno a cuore e mi interessano, ma io non sapevo nulla della scuola e delle sue problematiche, non conoscevo i ragazzi con cui avrei lavorato, non avevo la minima idea su come impostare il discorso. Che devo dirvi? Ci stiamo provando, siate clementi. Però, adesso, per me la domanda del titolo ha una risposta. Per provare a vedere se quello che abbiamo seminato produrrà o meno un raccolto vero. Bisogna avere un piano? Non saprei, io non lo avevo, ma qualcosa sembra aver funzionato.

Insomma, sono entrato nelle classi e ho raccolto adesioni su base del tutto volontaria, mi è venuto in mente di chiedere a ragazzi e ragazze perché abbiano detto di sì. Qualcuno ha pure risposto, come si fa a non voler loro bene?

Samantha: Il progetto mi era stato consigliato da un amico, Teofil, ma, ovviamente, sono temi che mi interessano. In particolare mi paiono importanti le questioni riguardo al ruolo della donna e tutti i problemi legati al cyberbullismo. Vorrei che le persone vedessero il nostro lavoro e potessero pensare “wow, questi studenti mi hanno fatto pensare, mi hanno aperto gli occhi”. Mi piacerebbe che alcune cose cominciassero a cambiare nel mondo intorno a noi. Non ci vuole molto, basta un po’ di cervello.

Petruska: Sinceramente, all’inizio ho aderito al progetto perché un posto non era ancora stato occupato, e quindi eccomi qua a raccontarvi come mai sono qui. Principalmente il progetto  era rivolto agli studenti maschi, ma il professore ha pensato che fosse utile un confronto anche con le ragazze. In tutta onestà la prima lezione non mi era piaciuta molto ma ho deciso di tornare al secondo incontro. L’atmosfera era già diversa, abbiamo iniziato a discutere su vari temi proposti da noi ragazze, per poi arrivare a argomenti nuovi, molto interessanti. Ogni incontro diventava più interessante e a oggi posso dire che questo gruppo sta diventando quasi una famiglia, e è stupendo. Mi piace che indirizzi così diversi riescano a incontrarsi.

Gabriel: Io faccio ragioneria, e, a essere sincero, all’inizio ho aderito al progetto per saltare qualche ora di lezione ma, nel corso del tempo ho iniziato a appassionarmi davvero. In primo luogo questo lavoro mi ha aiutato a abbattere dei pregiudizi che mi portavo dietro. Secondo me dobbiamo porci obiettivi realistici, non stiamo provando a cambiare il mondo e a crearne uno perfetto, ma dobbiamo cominciare a far ragionare i ragazzi e, in generale, le persone a cui ci rivolgiamo.

Lara: Ho aderito a questo progetto perché volevo cominciare a inserirmi nell’ambiente scolastico, nuovo per me. Volevo conoscere un po’ di persone e capire di cosa si trattasse, perché, all’inizio, non avevo capito molto , ma le questioni legate agli stereotipi di genere mi appassionano molto; sono davvero felicissima di aver preso parte a questo lavoro, perché ritengo che sia importante che la scuola si ponga questi problemi e voglia affrontarli. Ho scoperto di voler cambiare almeno un pezzetto di mondo, non voglio più stare a guardare ma provare a essere attiva e propositiva.

Teofil: Tutti noi, anche noi maschi, ci scontriamo con gli stereotipi di genere.  E, se uno stereotipo  è un giudizio portato senza conoscere le situazioni concrete e reali, questo progetto era già interessante perché basato sulla creazione di un gruppo misto, con ragazze e ragazzi entrambi coinvolti. Confrontarsi con persone e opinioni diverse, comprendere altri punti di vista, può portarti a cambiare idea, a pensare in modo diverso. Abbiamo già raggiunto un buon risultato conoscendoci meglio tra di noi, o conoscendo persone che non conoscevo affatto.

Giovanna: Ho deciso di aderire nel momento in cui il prof. Parisi è entrato in classe a proporci il progetto, ho apprezzato che volesse, in primo luogo ascoltare i nostri pareri e capire il nostro punto di vista. La problematica è ben nota, mancano le soluzioni per rompere gli schemi degli stereotipi; vorrei, con la mia presenza, portare il mio contributo in questa direzione. Avendo origini nono italiane, voglio anche capire come gli stereotipi di genere funzionano in differenti culture e contesti. Credo che il gruppo che abbiamo costruito, affiatato e multiculturale, possa trasmettere all’esterno la nostra iniziativa e, perché no, contagiare gli altri, mettere a qualcuno la pulce nell’orecchio, per riuscire, nel nostro piccolo, a cambiare qualcosa.

Una breve presentazione

Questo blog nasce all’interno del progetto “Sono cose da maschi?” promosso, all’interno del Festival della Cultura Tecnica, dalla Città Metropolitana di Bologna, IRS Istituto per la Ricerca Sociale e Gender Community. La nostra scuola, l’Istituto di Istruzione Superiore “Caduti della Direttissima” di Castiglione dei Pepoli, ha deciso di aderire sotto la responsabilità del Prof. Carlo Parisi. Il progetto lasciava a ogni singola scuola ampia libertà operativa: ogni scuola aderente poteva sviluppare il suo progetto, l’unico vincolo era, ovviamente, l’obiettivo, cioè mettere in atto strategie volte al superamento dei pregiudizi di genere nelle scuole. Già dall’inizio, lo confessiamo, ci siamo presi alcune libertà.

La prima, molto semplice, deriva dalla specificità del nostro istituto: se, nelle altre scuole coinvolte, la stragrande maggioranza degli studenti è composta da ragazzi, la nostra, seppure piuttosto piccola, si articola in quattro diversi indirizzi, di cui tre attivamente coinvolti nel progetto: se il corso di Amministrazione, Finanza e Marketing si presenta come misto, seppur a maggioranza femminile e quello di Manutenzione e Assistenza Tecnica è quasi interamente maschile, l’indirizzo di Programmazione Commerciale e Pubblicitaria è quasi esclusivamente femminile. A partire da questa situazione di partenza molto particolare abbiamo deciso di costituire un gruppo di lavoro che coinvolgesse studentesse e studenti delle classi III dei tre indirizzi menzionati sopra.Nello specifico, quattro ragazze del corso PCP, quattro ragazzi del corso MAT e due ragazze e due ragazzi del corso AFM. Queso primo gruppo di lavoro è diventato la redazione di questo blog.
Non sappiamo, dunque, quanto il lavoro che svolgiamo sia esportabile e adattabile a altri contesti ma il nostro primo obiettivo è stato quello di sviluppare le risorse e le caratteristiche del nostro istituto, di partire dalle ragazze e dai ragazzi che lo attraversano ogni giorno. Le loro domande e il loro disagio, su questi temi, sono stati la molla della nostra azione.

Ma perché proprio un blog? Abbiamo pensato che la strada migliore per combattere gli stereotipi di genere fosse quello di aumentare e migliorare gli spazi di comunicazione e di condivisione all’interno della scuola; migliorare il linguaggio, confrontarsi apertamente, mettersi in gioco, ha rappresentato e rappresenta, contemporaneamente, un’opportunità e una sfida: gli stereotipi di genere, come tutti gli stereotipi sono tanto più pericolosi quanto più ci condizionano e ci spingono, spesso inconsciamente, a conformarci a essi. Il rischio che tutti noi corriamo è quello di diventare ciò che gli stereotipi socialmente dominanti ci spingono a essere; cosa c’è di meglio di uno spazio aperto al confronto, alla comunicazione e alla discussione di un blog? Inoltre, in questo modo, riteniamo di poter lasciare alla scuola qualcosa che certo non si concluderà a novembre, quando il blog sarà pienamente attivo e fruibile ma, almeno così speriamo, possa rimanere disponibile per l’intera comunità studentesca e per chiunque voglia portare contributi, esperienze e riflessioni su questo genere di tematiche. La scelta del blog, inoltre, consente di lavorare su più livelli: analizzare quello che succede a scuola, nei nostri paesi, nella nostra città, ma anche provare a confrontarci con temi di attualità, con espressioni di cultura popolare come musica o serie TV: possiamo, insomma, seguire, di volta in volta le questioni che più ci premono e ci interessano, monitorare, in un certo senso, questo campo vastissimo di tematiche e di problemi, cercando di portare a chi vorrà leggerci, qualche strumento di comprensione e di riflessione sul presente.

La Redazione